Arrivati ad Auschwitz mi ha colpito il paesaggio.
Una campagna tranquilla, dolce, laboriosa. Un posto come tanti.
Mi aspettavo il freddo e la neve, invece c'era un bel sole, a tratti anche caldo.
C'erano un sacco di colori. Ovviamente.
I prati, le baracche, le celle, i cortili.
Il cielo. Azzurrissimo.
Io che ho sempre e solo visto quel posto in filmati in bianco e nero, sgranati, rovinati, mi son ritrovato davanti agli occhi un luogo ordinario. Normale.
Vero, presente. Non lontano nel tempo, dimenticato.
E poi gli archivi, le foto segnaletiche, le schede dei prigionieri, le statistiche.
Una macchina burocratica gigantesca. Fredda, rigida e distaccata come tutte le burocrazie.
Centinaia di persone che per anni hanno lavorato con zelo ad una mostruosità impossibile da descrivere.
Forse abbiamo difficoltà a credere che l'inferno esista sul serio, che non è un posto distante e diverso dai tanti che viviamo e che frequentiamo. Che cresce e si alimenta nelle pieghe dell'indifferenza, del qualunquismo, del fanatismo, dell'ignoranza, della disperazione e della mediocrità.
Ho capito cosa intendeva Hannah Arendt quando, seguendo il processo Eichmann, descrisse l'ufficiale nazista come il simbolo della "banalità del male".
Sconvolge sapere che tutto quell'orrore è stato possibile.
Inquieta pensare che può accadere (e ahimè, è già accaduto) ancora.
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