Era il 9 ottobre del 1967 quando, in mezzo ai monti della Bolivia, Ernesto Guevara veniva catturato e ucciso dall'esercito del generale René Barrientos Ortuno e dalla CIA.
La mia generazione è abituata a immaginare il Che come un simbolo. Anzi, peggio, come un marchio. Un volto fiero e pensieroso stamapato su una maglietta da esibire a un concerto o a una manifestazione. Un ragazzo giovane, forte, bellissimo. Icona di un'utopia irrealizzata.
Uno scatto che fissa un momento, rendendolo immortale ma anche fuori contesto.
Il viaggio che quest'estate ho fatto a Cuba mi ha fatto conoscere una dimensione diversa del Che. Venerato come un dio dal popolo che lo ha adottato, il Che è ovunque. Sorride all'angolo di una strada, imbraccia il fucile dietro la teca di un museo, taglia l'erba in un poster, è in mezzo alle piazze, sulla copertina di un un libro, su una banconota o nelle parole delle canzoni popolari. A volte sorride, a volte fuma con lo sguardo assorto. A volte stringe mani ai potenti del mondo nell'atrio delle Nazioni Unite, a volte si riposa con i campesinos a petto nudo, alla fine del lavoro volontario del sabato.
Non più un volto, ma un uomo in carne ed ossa, che ha deciso, giovanissimo, di lasciare la sua terra e la sua agiata famiglia per mettersi a disposizione di un sogno, quello dell'uguaglianza.
Sogno di cui sono rimaste solo delle rovine colorate e malinconiche, ma che, a 45 anni dalla sua morte, continua a vivere anche grazie al suo esempio.
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